domenica 31 maggio 2009

martedì 10 marzo 2009

venerdì 6 marzo 2009

lunedì 2 marzo 2009

nuclear device


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Centrale nucleare del Garigliano: la sua storia ci ricorda diciotto incidenti di rilievo, tra cui quello del 1980, ricordato come la “Chernobyl di casa nostra”, il quale provocò la fuoriuscita di grandi quantità di materiale radioattivo, soprattutto Cesio-137 e Cobalto-60, registrabile ancora oggi nell’area incriminata, facendo registrare dopo qualche giorno la morte di tutte le bufale della zona con la moria di pesci lungo il tratto di mare ove sfocia il fiume Garigliano e successivamente malformazioni congenite nei vitelli allevati nella zona contigua con uno spaventoso aumento della mortalità per tumore e leucemia negli esseri umani. Nel 1981 l’Enel, subentrata alla Senn nel 1965, decise di non riavviare più l’impianto. E’ stato calcolato che presso la centrale ci sono ancora circa 2.500 metri cubi di scorie radioattive stoccate.

lunedì 19 gennaio 2009

mercoledì 7 gennaio 2009

martedì 6 gennaio 2009

lunedì 5 gennaio 2009

sabato 3 gennaio 2009

giovedì 1 gennaio 2009

american palace - dopo la strage di san gennaro


american palace - dopo la strage di san gennaro


american palace - dopo la strage di san gennaro


american palace - dopo la strage di san gennaro


Due strisce di polvere bianca sul piano lucido. Roba buona, assai potente. Non come quella che si vende al calar delle tenebre in via dei Diavoli. I nigeriani la mischiano con la lidocaina: ecco perchè i tossici smascellano quando ne sniffano troppa. Peppe, detto “o’ Cecat”, tagliuzza, smista ed allinea la coca in piccole piste parallele, aiutandosi con il santino di San Castrese, osannato patrono di Castel di Principe. Poi china il capo, infila nella narice sinistra una banconota arrotolata da cento euro e via... SSBAAAAAMMM …Una vampata sismica di adrenalina, il cuore che si liquefa nel torace ed evapora mentre il diaframma va in tilt. Peppe si stropiccia con foga la punta del naso. Deglutisce e massaggia con la lingua il palato, scuote e rotea la testa come un pugile colpito da un uppercut. Ancora un altro giro di walzer e...SABAAAAMMM….Ora si crede Annibale in mezzo ai romani, invincibile, possente. Con la punta del mignolo raccoglie i microgranuli di cocaina sparsi su tavolo di rovere massello e poi si strofina le gengive. E’ un leone alato dai muscoli di giaguaro. Afferra la pettorina dei Carabinieri piegata sullo schienale della sedia di plastica e la indossa mentre si osserva nello specchio a muro. “O’ Cecat” si morde le labbra e raddrizza la benda di tela che protegge l’occhio sinistro, retaggio di un intervento in una clinica di Pavia per una grave patologia retinica. Sei ore dopo l’operazione, nottetempo, la fuga. Sono passati otto mesi, ed ora che è di nuovo latitante Peppe ha trovato rifugio in un villino sperduto ad Ischitella. Inforca gli occhiali scuri alla Blues Brothers, infilza giubbotto di volo U.S. Navy in simil-pelle nera. Solleva il materasso con una mano e con l’altra agguanta la sua inseparabile compagna di mala-vita: una Smith & Wesson Magnum 357. Con lei in pugno, la sua volontà di potenza diventa Apocalisse. Ogni volta che il palmo stringe quel manico dentellato, Peppe avverte una placida sensazione di onnipotenza. Ama il luccichio dei bossoli calibro 38 special, il tonfo strozzato degli spari, il piacevole rimbrotto del rinculo. Distrattamente sbircia la foto di sua moglie in una cornice appesa a sinistra dello specchio. Le aveva inviato un pizzino: quella sera non sarebbe tornato a casa e, forse, si sarebbe trattenuto fuori almeno per una settimana. Ora Peppe è pronto e si avvia verso la porta. Nella stanza disadorna, oltre al letto, al tavolo Art Decò ed alla sedia comprata all’Ipercoop, un Pinguino Delonghi arrugginito. Ritagli di articoli di un settimanale che riporta a tutta pagina un’intervista al giudice Catone. La prima pagina del “Corriere dei Latrones” con la foto del colonnello dei Carabinieri Bugo ed un titolo a sette colonne: “O' Cecat ha i minuti contati: lo prenderemo”. Qualche piatto sudicio sul pavimento e pezzi di aragosta spolpata nel cestino. Giuseppe spegne la luce, gira il pomello ed esce. Stasera nessuno, a Castel di Principe, ha il diritto di continuare a vivere.Inutili invertebrati dalla pelle nera. Puzzano, urlano e praticano arcani riti woo-doo. Peppe li ha sempre odiati. Sin da bambino. Ricorda ogni particolare come se fosse ieri. Estate 1989, ghetto di Villa Literno. Baracche di lamiera in fila indiana, bacinelle blu piene d’acqua putrida, teloni di plastica trasparente straziati dal vento. Tra le mani la sua prima molotov. Un panno da cucina come stoppino. Poi la scintilla dello zippo. Il crepitio di una bottiglia che si infrange. Il fuoco, le urla, l’odore acre di bruciato. Scampoli di un’adolescenza violenta a Castel di Principe, tra bufale e Mercedes Benz. Da quel luglio di 19 anni fa, Peppe ne aveva fatta di strada, tutta di corsa. Ogni contrada del paese lo rispettava. Quando camminava in piazza Villa gli anziani fuori ai circoli, giravano la testa altrove. Tutti temevano il suo sguardo e la sua rabbia. Anche perchè o’ Cecat prendeva ordini da Zio Cicciotto in persona. E l’ultima direttiva era: sparare agli africani. Manichini di nulla mescolato al niente. Lo Zio era stato di poche parole. Colpirne uno per educarne cento. Far capire loro che era giunto il tempo di andare via, di ripercorrere a nuoto il Mediterraneo. Si trattava di un favore per Don Cristofaro Luigi Copposerta. Dopo anni di trattative il Don aveva raggiunto un’intesa con il Comune e la Regione: un accordo di programma per realizzare un maxi resort a sette stelle con annesso campo da golf a 24 buche, piscina olimpionica di acque termali più un porticciolo per l’attracco degli Yatch. Un’oasi di svago e verde artefatto che sarebbe piaciuta tanto agli americani della Nato, dal 1945 clienti fissi di don Copposerta. Ma quei luridi ominidi intralciavano il suo sogno di cemento armato. Troppi spacciatori, troppe prostitute, troppi straccioni a Castel di Principe. Una bella disinfestazione umana, ecco quello che voleva Copposerta, padrino di battesimo del terzogenito dello Zio. Il don aveva già pagato in contanti. Due valige piene di mazzette da cento euro. Peppe le aveva viste con il suo unico occhio malconcio. Così come ora vede una Fiat Marea grigio metallizzata parcheggiata fuori al cancello del suo villino. O’ Cecat, con passo rapido raggiunge la vettura dai vetri oscurati. Apre la maniglia dello sportello anteriore destro e si siede di fianco del conducente. All’interno ci sono tutti i suoi uomini. Li ha scelti lui, uno ad uno. Si fida di loro. Hanno sparato con lo stesso mitragliatore Uzi, si sono divisi pasta di eroina e ballerine brasiliane. Alla sua sinistra, con le mani sul volante, c’è Oreste Portoghese, che sembra un tronista di Uomini e Donne. Veste solo completi griffati Dolce e Gabbana. Fino a qualche anno fa sbarcava il lunario lavorando come custode dei viali privati lungo Corso Lenin. Adesso è un narciso che sboccia alla luce di una lampada abbronzante, una pianta carnivora affamata di soldi. Piccoli difetti di un ragazzo di strada in procinto di diventare un vero camorrista. Seduto sul sedile posteriore c’è Alessandro Birillo, detto “o’ Tenente”. In un’altra vita sarebbe stato un ottimo parà della Folgore, un soldato col coraggio di un mujaiddin ed il sangue freddo di un Marine. Anche Pasquale Murgias era un uomo di azione. Figlio di ricchi allevatori bufalini, amante delle lucciole nigeriane e fervente cattolico. Dopo ogni omicidio Pasquale si faceva sempre il segno della croce. Il boss saluta con un cenno della testa i suoi scagnozzi. I loro volti sono statue di sale. Solo Oreste, che è il più giovane, mastica con furia una big bubble. Ed è proprio a lui che Peppe dedica un lungo sguardo indagatore. Lo scruta, lo invade, lo sviscera. Al di là della benda, si chiede se quel ragazzo dai capelli cotonati e le sopracciglia limate sia in grado di sparare con il kalashnikov. Peppe si domanda se l’indice di Oreste tremerà prima di spingere il grilletto. Quesiti invisibili che barcollano nel suo ipotalamo. Non è il momento di spargere dubbi. Ciak, si gira e basta.Per strada non un’anima viva. Al tramonto vige una sorta di coprifuoco. Gli indigeni di giorno, e i neri di notte. La loro vita, ora, pesa nove grammi di piombo. Ai cigli della strada, scorrono lenti cassonetti dell’immondizia bruciati. Oltre il lungo muro di cinta sovrastato dal filo spinato, scheletri di pini mediterranei che offrono riparo ai tossici di tutta la Campania. Nelle piazzole di sosta materassi intrisi di urina, divorati dai tarli. Le finestre delle villette che si affacciano sulla Statale sono tutte chiuse, sbarrate. Un bastardino randagio dal pelo bianco, zoppicando, caracolla. All’interno della Fiat Marea che sfreccia a ottanta all’ora verso Castel di Principe, nessuno parla. Tra di loro aleggia la radiocronaca della terza giornata di campionato serie A, il Big Match al San Paolo. In sottofondo le urla di 76mila tifosi del Napoli di Hamsik e de “El Pocho” contro i miagolii di quattro gatti spellacchiati al seguito della Juventus orfana di Luciano Moggi. I celerini sotto la curva B, i caffè borghetti, i Mastiffs. Tutti, da Napoli a Caserta, come ipnotizzati guardano la partita in Tv. La serata ideale per eseguire l’ordine di morte impartito da Zio Cicciotto. Il Padrino vuole un’azione punitiva, come non se ne erano mai viste prima. Una strage, un bagno di sangue, un segnale inequivocabile per tutti i neri di Castel di Principe. Perché per i morti ammazzati una notte in obitorio, l’esame autoptico, una Messa solenne e niente più pensieri: i nuovi guai sono sempre per i vivi che non hanno ancora assaggiato i bossoli della 357 magnum. Sono loro i veri destinatari del messaggio di Don Copposerta, dello Zio e di Peppe o’ Cecat. Via, fuggite via, IATEVENNE.“El Pocho, guizzo sulla fascia destra, cross in area di rigore, l’aggancio di Hamsik, la difesa juventina circonda Hamsik, Hamsik si smarca. Spettacolo signori… la palla a Zalajeta. Zalajeta, signori, Zalajeta...pallonetto...siiiiiii...è GOOOOOOOOOOLLLL. E’ GOL GOL GOL...”Peppe tira forte col naso, inarca le labbra e disegna nel fragore delle onde radio un aborto di sorriso. “Nu cuntacchid bedd asseje allimmen u tenimm” (“almeno un nero che serve esiste”). Nel retro della Fiat Croma grigio metallizzato, Alessandro e Pasquale non battono ciglio mentre osservano la Domitiana che scorre fluida come un rivolo dei Regi Lagni. La tensione è un cappio ad ogni nervo, e non c’è tempo per esultare. Solo Oreste sghignazza alla battuta del “Cecato”. E’ poco più che un moschillo: Peppe lo sa e torna con la mente al sacco di yuta nascosto sotto la ruota di scorta all’interno del portabagagli. Lì ci sono due kalashnikov da poco importati dalla Serbia, grazie ai buoni uffici di Amir l’albanese. I fucili, tempo fa, erano stati collaudati dalle Tigri di Arkan ed ora avrebbero servito solo un’altra tigre: una belva con i canini di sciabola, il pelo lucido ed una benda all’occhio. Una tigre di Castel di Principe che adesso scruta la strada in cerca della preda. “Ei bbi lok, oiii” (“eccoli, finalmente”). Con un piccolo cenno del capo, Peppe indica tre neri nei pressi di una sottospecie di negozio dall’impronunciabile nome africano distante poco più di cinquanta metri. Oreste afferra l’input al volo, decelera e procede a 20 all’ora. Sono delle iene in agguato, e prima dell’assalto finale studiano la selvaggina, le sue mosse, le sue pulsioni. I colored parlano tra di loro e si sganasciano dalle risate. Il megero al centro della cricca, forse, sta raccontando qualcosa di divertente. Il cantastorie africano indossa una bandana a stelle e strisce come quei rappers grassi e goffi che scimmiottano su Mtv. Per Peppe, quelle palle di lardo nero saltellanti, piene di catene d’oro e di anelli luccicanti, rappresentano una sorta di devolution del genere umano. Credono di essere dei duri, dei gangster. Il suo volto si contorce in un’impercettibile smorfia di disgusto, tira su forte con il naso per un’ultima volta. Serra le labbra con rabbia e ordina: “Iettme!” (“andiamo!”). Una scossa di adrenalina spazza via la nebbia dai cervelli soffritti dalla cocaina. I quattro caval leggeri dell’Apocalisse aggrottano la fronte. L’ordine di morte giunge sibillino ai loro timpani ancora frastornati dal clamore stereofonico che insegue – simile al tuono dopo il lampo - il goal di Zalajeta. Domani mattina sui giornali o al Tg, la strage di San Gennaro verrò descritta come un “dopo”, un dato di fatto, una missione compiuta. Eppure, c’è sempre un “prima” che sfugge al grande pubblico morboso. Ed è quell’istante di lucida follia che O’ Cecat ed i suoi scagnozzi stanno assaporando. E’ il fuoco dell’ultimo barlume di umanità che brucia nei loro sguardi vitrei. Nel chiuso della Fiat Croma con i finestrini oscurati, Peppe, Oreste, Alessandro e Pasquale tastano con le mani le pistole come se fossero degli ex voto. Una 357 magnum, una P38, una Red Scorpion, una Beretta calibro nove. Quattro pappaghene pronte a cantare una dolce polifonia di piombo la cui eco sconvolgerà il mondo.Una sterzata fulminea e la Fiat Marea s’incunea nel piazzale di cemento antistante la sartoria dallo strano nome africano. La luce che irradia l’insegna del negozio sguazza sull’asfalto. Sull’uscio della “Ob ob Sibarì Fashion” tre uomini di colore parlottano concitati. Il vatusso che sta al centro della cricca si chiama Stephen, viene da Accra, è il terzo di sei fratelli e per sopravvivere a Castel di Principe si è reinventato sarto. L’altro fa di nome Yeboah, lavora nei campi di pomodoro a Villa Literno, venti euro a giornata e una settimana fa il caporale non l’ha neanche pagato. Eppure, ora che si ritrova con gli amici, con appena 50 cents in tasca, si sbellica dalle risate. Così come ride di gusto anche Sunny, ingegnere al servizio dell’Industria Petrolifera Nigeriana prima che i ribelli del Delta del Niger prendessero il sopravvento. Stephen racconta di quando accompagnò in Questura John Godpower, un pazzo furioso ma inoffensivo che credeva di essere il profeta Isaia. Quel giorno doveva semplicemente ritirare il permesso di soggiorno, ed il poliziotto che gli passò la penna sotto il vetro dello sportello gli intimò di firmare il suo agognato documento. John, spaesato, uscì dall’ufficio immigrazione di corsa e chiamò Stephen per chiedergli, balbettando, a cosa servisse quello strano affare che gli aveva passato il Brigadiere. E mentre Stephen imita l’espressione di quel togolese barbuto che si credeva il profeta Isaia, uno stridio tenue di ruote che sgommano sull’asfalto attira la sua attenzione. Le portiere della vettura si aprono all’unisono. Quattro uomini bianchi torvi in volto scendono dalla macchina. Indossano delle pettorine blu con su scritto a caratteri cubitali: Carabinieri. Uno di loro porta occhiali scuri alla Blues brothers nonostante il buio pesto. Il commando si spacca: due si dirigono dritti verso Stephen ed i suoi amici, gli altri raggiungono il retro della Croma, aprono lo sportello del portabagagli e tirano fuori da un sacco di yuta gli Automatova Khalshnikova Obrazca 47. “Kalash”, sussurra in lingua ashanti Stephen mentre i muscoli del volto si contraggono in una maschera di terrore. Sa che da quella canna di ferro può uscire solo morte e distruzione. Una colata di vuoto assoluto frantuma la quiete. Ora i ragazzi africani non parlano più di Questura, documenti e penne: il panico ancestrale è ovunque. Quattro uomini che sembrano dei Carabinieri si avvicinano con passo marziale. Il tizio con gli occhiali scuri afferra con la mano destra una pistola. Gli altri due puntano i kalash contro i colored. Passa un nanosecondo e l’uomo con le lenti da sole dice loro: “Fermi, Carabinieri”. All’improvviso Stephen, Yeboah e Sunny capiscono. I bianchi non chiederanno il permesso di soggiorno a nessuno. Non sono lì per sfasciare il negozio o per piazzare a qualche negro cocaina sottratta ai depositi del Comando provinciale. No, dai loro occhi traspare altro. Una strana luce. Ora i due armati di kalhasnikov hanno tolto la sicura. Un silenzio tombale. L'uomo al centro stira il braccio, stringe con foga il calcio della 357 Magnum, prende la mira, mette a fuoco il bersaglio e preme il grilletto.... Stephen va in trans e rivede al di là delle palpebre chiuse la sua capanna nella bidonville di Accra, il sorriso della madre vestita con gli abiti da festa: aveva sedici anni era il giorno del suo compleanno e prima o poi sarebbe andato in Canada, a lavorare in un grande albergo, per garantire a tutta la famiglia un futuro migliore.Ora Stephen urla e si copre il volto con le mani. Attende il fragore dello sparo, il calore del piombo fuso che lacera le carni, ma tutto ciò che sente è solo un singhiozzo sordo di metallo. Tlik tlik tlik, come cicale in un campo di grano a Ferragosto.L’indice si piega a scatti sul grilletto. Peppe o’ Cecat non crede al suo unico occhio. Tenta e ritenta come un ossesso, ma niente da fare. La Smith & Wesson si è inceppata, e lui si sente un evirato di fronte a Eva Henger in baby doll. La sua amata compagna di malavita lo sta tradendo per salvare la vita a tre neri rinnegati. Bastarda di una cagna. Un martello batte sulle sue tempie. “Mannegg, mannegg”, impreca furioso mentre una goccia di sudore scivola via dalla sua fronte. Stralunato, Peppe si gira verso i suoi scagnozzi. Incredibile: persino i kalash sono out. Peppe quasi sviene mentre Alessandro smanetta sul tasto di sgancio dell’otturatore. Oreste, invece, sfila il caricatore della P38 e lo reinserisce. Poi punta di nuovo la pistola contro gli africani e prova a sparare. Zero, nulla di nulla. Il volto di Peppe inizia a farsi paonazzo. Cilecca, cilecca e sempre cilecca. Dannatissimi residui bellici Made in Urss: il raid sta fallendo miseramente per colpa di quelle ferraglie giunte a Castel di Principe dall'ex Jugoslavia. Peppe già accarezza con la fantasia l’attimo in cui strangolerà con una retina rossa per provoloni Amir l'albanese. Lurido zingaro slavo. Pensieri inquietanti affollarono la sua mente sconvolta: adesso cosa dirà lo Zio? Come reagirà don Luigi Copposerta? O’ Cecat, per la prima volta in vita sua, teme il peggio. Mentre Alessandro ed Oreste arretrano a piccoli passi, gli africani la smettono di piagnucolare invocando i nomi delle loro mogli o delle loro figlie rimaste nella bidonville di Accra, lontane mille miglia da quel battaglione di morte con le pettorine dei Carabinieri. Stephen, però, si accorgere di essere ancora sano e salvo. Avverte il suo affanno, le lacrime che gli rigano le guance, le imprecazioni in dialetto castellese. E’ vivo, è ancora vivo. E allora Stephen si fa coraggio e sbircia tra le mani tremanti con cui sperava di proteggere dalle pallottole dell’Ak 47 almeno il volto. Vede quattro uomini bianchi che armeggiano con pistole e fucili nel tentativo disperato di far partire un colpo. Peppe intercetta il suo sguardo terrorizzato, bestemmia in e schiumando rabbia lancia la 357 Magnum contro Stephen. “T’aggia scannààààà”, urla querulo mentre si scaglia addosso al nero con la bandana. Gli altri scagnozzi, basiti, seguono l’esempio del capo buttandosi nella baruffa, colpendo con i calci dei kalashnikov e delle pistole inceppate quei quattro mustacciuoli in pantaloni. Peppe afferra con le mani la gola di Stephen e stringe con tutta la sua forza. Anche Oresete, Alessandro e Pasquale menano mazzate napoletane. “T’aggià scannaaaa,, mannegg’ i kene, t’aggià scannnaaaaaaaaa”, urla furibondo Peppe. Poi, quando gli occhi di Stephen quasi sgusciano via dalle orbite, un fiotto caldo sulla tempia destra cattura per un attimo la sua attenzione. Stacca una mano dal collo taurino dell’africano, si tampona la fronte e osserva con il suo unico occhio ancora funzionante. La sua mano è sporca di sangue. Poi si gira di scatto e vede Oreste, il moschillo che veste solocompleti griffati Dolce e Gabbana, crollare sulle ginocchia e franare sull’asfalto. La sua nuca è un grumo rosso pulsante, i capelli cotonati un pudding di materia cerebrale. O' Cecat annusa il pericolo come un levriero da caccia e realizza. Dietro di lui c’è qualcuno. E allora decide di liberare Stephen dalla morsa asfissiante e si volta di scatto. Con sommo stupore e sbigottimento vede altri due ragazzi neri armati con mazze da baseball. Saltellano di continuo come orango tanghi. La loro è una sorta di danza tribale e quando Peppe si gira i due indiavolati gridano oscure minacce in un idioma a lui incomprensibile. Uno di loro indica con la mazza di baseball il corpo inerte di Oreste, mentre l’altro invasato sferra una mazzata nel pieno viso di Pasquale. Il rumore del legno che sfonda il setto nasale del Tenente è narcotizzante.Peppe stenta ancora a credere al suo unico occhio non bendato. Si gira di scatto in tutte le direzioni, in cerca di una via di fuga. Nel frattempo, dalla Domitiana, altri invasati Masai corrono verso di lui. Chi impugna una bottiglia di Peroni rotta, chi una spranga di ferro che assomiglia ad una marmitta. Peppe si sente un animale nella cella di uno zoo. Il boss che prende ordini solo dalla Zio realizza: ormai è quasi circondato. Circa venti diavoli neri lo stanno per braccare. O’ Cecat avverte forse per la prima volta in vita sua il terrore allo stato puro. L’effetto della cocaina è ormai un ricordo in technicolor. Ora, nel suo ipotalamo, trova spazio solo il panico. Neanche il tempo di realizzare la sua disgrazia che una randellata lo colpisce sull’avambraccio. SBAAAAAMMMM. Una smorfia di dolore deforma i connotati, e per un momento perde la percezione dell’arto destro. Ma Peppe è un uomo di azione, un killer del clan dei Castellesi, uno di mezzo la strada e sa che in quel frangente, anche uno come lui, un boss del suo calibro può fare solo una cosa: fuggire come un coniglio. E così, o’ Cecat’ inizia a correre. Ma viene raggiunto alla spalla da un’altra botta. Le carni indolenzite quasi si staccano dalle ossa….SBAAAMMMMM… Peppe fugge a gambe levate, come quando a quattordici anni gettò la sua prima molotov tra le baracche del ghetto Villa Literno. Sembra quasi che da quel giorno non sia cambiato nulla. All’improvviso, mentre un’orda di africani armati lo rincorre, si rende conto che la sua vita è stata solo un'eterna fuga.

Domitiana road


Napoli, 21 set. (Apcom) - Vivono anche in dieci-quindici in appartamenti di tre stanze: tre letti in ogni camera, materassi persino fuori i balconi. Un unico bagno e cucine al di sotto della soglia di decenza. Un `posto al sole' che gli immigrati dellitorale domizio pagano anche 450-500 euro al mese:40-50 euro a persona per condividere con altri extracomunitari di colore un tetto, una televisione e un tavolo dove poter mangiare. Sono gli stessi africani ad accompagnare qualche giornalista a visitare le loro case, molte delle quali costruite sulla statale domiziana. "Qui è uno schifo - raccontano - ma c'è chi sta peggio. In un casolare nelle campagne qui intorno vivono, a seconda dei periodi, anche 100-150 persone. Tutti insieme,ammassati come animali".In questo degrado si è consumata la "strage di San Gennaro", quando, a essere massacrati da 130 colpi di kalashnikov e pistole calibro 9, sono stati sei cittadini di colore. Gli africani hanno in affitto case di ogni tipo, date per centinaia di euro al mese, e lamentano condizioni inumane. "Guardate dove siamo costretti a stare", dicono indicando l'androne e le scale dell''American Palace' di Castel Volturno,un complesso residenziale prima abitato dagli americani e dato inaffitto agli immigrati di colore dal 2000. Una palazzina bianca di cinque piani, una sorta di `case di ringhiera' con un totaledi 24 appartamenti affittati, ognuno a 450 euro. A due passi dalfiume Volturno, uno dei corsi d'acqua più velenosi d'Italia e a due passi dal mare, uno dei più inquinati della Penisola. "Qui ci abitano fino a 400 persone, in certi periodi dell'anno", continuano i rappresentanti delle associazioni di immigrati. L'American Palace è un insieme di vetri rotti, gradini sporchi, giardinetti incolti e un grande piazzale con piastrelle chiare. L'ascensore c'è, ma è rotto da tempo e le ringhiere che proteggono la tromba delle scale sono divelte. Bottiglie rotte, torsoli di mele, lattine di bibite vuote e carte sporche sono ovunque e le case degli immigrati sono dei veri e propri`accampamenti'. Le biciclette, parcheggiate nei corridoi degli appartamenti, sono gli unici mezzi di locomozione utilizzatidagli africani per spostarsi e i panni stesi fanno da cornice ai balconi che accolgono qualche antenna parabolica. Vecchi televisori e qualche radio sono i pochi lussi che si possonotrovare in queste case. "Venite, venite a vedere come viviamo - dice Mohamed - le uniche che possiamo permetterci con i pochi soldi che guadagnamo ognigiorno: 25 euro quando tutto va bene. Iniziamo a lavorare alle 5 di mattina e torniamo a casa quando è già tardi". Alcuni di loro sono contadini, altri muratori, altri ancora sarti o manovali. "Icaporali vengono in strada e ci portano a lavorare in tutte leparti della regione, ma non sempre lavoriamo tutti i giorni -concludono - Ecco guardate le nostre mani, sono piene di calli. Cicatrici come quelle che avevano anche alcuni dei nostri amici uccisi l'altro giorno".

castelvolturno '08